Vai al contenuto
Tempo stimato di lettura: 8 minutiCarissimi, siamo felici di partecipare con l’autrice Elena Ungini al delizioso progetto che ci terrà compagnia nell’attesa del Natale.
Elena ci fornirà con scadenze settimanali (sempre compatibilmente con le sue disponibilità) un capitolo del racconto lungo intitolato “La sfera magica” e noi lo condivideremo con voi in attesa dell’arrivo delle festività natalizie.
Questo genere di racconti di Elena Ungini sono sì per bambini e ragazzi, ma mantengono una sorta di fascino che appassiona anche gli adulti. Per questo motivo vi invito a segnarvi l’evento settimanale e condividere con noi il piacere di questa lettura.
Iniziamo con il primo capitolo!
LA SFERA MAGICA
CAPITOLO UNO
Daniel sbatté un paio di volte le palpebre, poi spalancò i suoi grandi occhi verdi, che si persero nella solita oscurità della stanza. Non entrava mai luce lì, neppure di giorno. La prima sensazione che avvertì fu il freddo pungente, che rendeva l’aria frizzante e intirizziva le membra. Era mattina, probabilmente, perché si sentivano già i primi sussurri, fra i suoi compagni. Mancavano pochi giorni a Natale, ma per lui era solo un periodo come un altro. Una volta non era così: ripensava a quando viveva con la sua famiglia, in Albania. Erano poveri, e sua madre si occupava di lui e di altri due fratelli più piccoli. Era sola, sua madre. Il padre era morto durante la guerriglia che si era scatenata nel 1997, a causa della crisi dovuta al crollo finanziario. Una guerriglia cui era stato costretto a partecipare. Lui non voleva. La mamma glielo diceva sempre che lui non voleva andare, che non voleva lasciarli soli. Ma poi era dovuto partire. Per forza. L’avevano costretto, minacciato. E non era tornato più. Disperso, morto, non si era mai saputo. Non avevano avuto più sue notizie, neppure dopo la fine di quell’orribile periodo di guerriglia civile. Lo avevano aspettato, per anni, ma lui non era più tornato, e si erano ritrovati soli, caduti in miseria. Non c’erano addobbi e presepi, in casa loro, per Natale. Non c’erano pranzi luculliani e neppure regali sotto l’albero, a volte non c’era neppure da mangiare, o la legna da ardere nel camino. Ma c’era una casa, una piccola casa malandata e rovinata dai bombardamenti, ma pur sempre una casa. Ed era bello starsene lì con la mamma e i fratelli, a passare il Natale, anche se non c’era niente da mangiare. Ricordava gli abbracci caldi della sua mamma, le storie che lei gli raccontava prima di addormentarsi, le cose che lei gli insegnava giorno per giorno. Poi era arrivato quell’uomo, quel Vastano. Aveva convinto la mamma che lui meritava di meglio, che in Italia avrebbe avuto una famiglia ricca che si sarebbe occupata di lui. Lo avrebbero vestito, nutrito, fatto studiare fino all’università e oltre, se lui lo avesse voluto. Gli avrebbero dato tutto l’amore del mondo e anche qualcosa di più. La mamma, piangendo, aveva acconsentito a farlo partire. Ricordava lei che lo salutava con la mano, mentre lui la guardava con le lacrime agli occhi dal finestrino di quella macchina blu che era venuta a prenderlo.
Era successo tre anni prima. Niente di quello che avevano promesso alla sua mamma si era avverato: non c’era nessuna famiglia ricca ad attenderlo in Italia. Dopo un viaggio massacrante, nella stiva di un battello puzzolente, stipato e schiacciato fra altre trecento persone, era arrivato a destinazione. Daniel ricordava quel viaggio: dapprincipio aveva pensato che, una volta giunto in Italia, tutto sarebbe andato bene, poi si era chiesto se per caso non lo avessero messo sulla nave sbagliata. Alla fine, aveva capito che non c’era speranza per lui. Nessuna speranza.
Ed era stato così: appena giunto in Italia era stato messo su una lunga macchina marrone, caricato, insieme ad altri tre bambini più o meno della sua età, sul sedile di dietro, dove aveva dormito per diverse ore, fino a giungere a un luogo chiamato Brescia. Non sapeva dove si trovasse; non ne aveva la più pallida idea. Aveva studiato a scuola che si trovava in Italia, ma non ne sapeva di più. In fondo, aveva appena finito le scuole elementari.
Era rimasto abbagliato da quella grande città: luci, colori, macchine che sfrecciavano veloci. Nessuno che aveva tempo di badare a lui, un povero bambino strappato all’affetto di sua madre e dei suoi fratelli per essere portato proprio lì, in quello strano posto, con gente che non conosceva e che non aveva certo l’intenzione di affidarlo a qualche famiglia per bene.
Era stato portato in una fabbrica vuota e abbandonata, polverosa, con alte finestre dai vetri rotti, attraverso le quali un vento gelido entrava fischiando e faceva dondolare lunghe ragnatele grigie che pendevano dal soffitto. Qui, lui e gli altri bambini, insieme a Carlo, l’uomo che li accompagnava da quando erano sbarcati, erano scesi in silenzio in una specie di catacomba, un tunnel sotterraneo, che si apriva in una stanza buia, senza finestre, sottoterra. Qui c’erano molti altri bimbi, dai cinque ai dieci anni circa. Daniel aveva potuto vederli tutti solo in quell’occasione perché, quando Carlo entrò nella stanza, un altro uomo accese la luce e squadrò uno a uno i quattro nuovi arrivati. I due uomini si erano scambiati qualche parola in italiano. Daniel non aveva capito nulla, a parte il nome del suo nuovo carceriere: non conosceva l’italiano. Poi l’altro uomo, Rodolfo, aveva dato dei soldi a Carlo e quello se ne era andato, lasciandoli lì, in quella specie di budello sotterraneo. Da allora era iniziato un vero inferno: Daniel era stato messo a dormire sopra un materasso buttato per terra, con solo una coperta addosso. Non c’era riscaldamento e faceva un freddo cane, là sotto. Ma il peggio arrivava durante il giorno: tutte le mattine la sveglia era all’alba e i bambini venivano mandati a chiedere l’elemosina per le strade. Ogni sera, dovevano portare a casa almeno cinquanta euro. Se ne portavano meno, erano botte. Daniel aveva capito alla svelta che non conveniva andarsene a zonzo per la città senza far nulla: doveva raccogliere il denaro necessario, o avrebbe preso un sacco di botte. Botte che toglievano il fiato. Gli era capitato qualche volta, in due anni, di tornare senza i soldi necessari. Ne aveva prese tante che gli era sanguinato il naso per ore. E forse gli avevano rotto anche qualche costola, ma lui sapeva solo che gli faceva male a respirare, per dei giorni interi, dopo quei pestaggi.
Cercò di scacciare quel pensiero dalla mente: doveva alzarsi, o sarebbero venuti a tirarlo giù dal letto a forza. Si alzò, già completamente vestito. Aveva imparato che non conveniva togliersi gli abiti di dosso, neppure d’estate, quando il caldo si faceva insopportabile, là sotto: infatti, troppo spesso gli abiti sparivano durante la notte. I bambini più grandi e prepotenti li rubavano agli altri più deboli, per poi rivenderglieli. Si era formata una specie di cosca, un gruppo di ragazzi che picchiava gli altri e gli estorceva dei soldi, per raggiungere le centomila lire senza lavorare. Daniel aveva capito presto che doveva stare alla larga da loro: nascondeva i soldi guadagnati anche nelle mutande, se necessario; lavorava lontano da loro, sempre.
Uscì dal cunicolo oscuro insieme agli altri ragazzini e Greta si mise al suo fianco. Era più piccola di lui ed era arrivata da poco. A Daniel ricordava tanto sua cugina. Greta conosceva poco la lingua, e Daniel l’aveva presa sotto la sua protezione da quando dei ragazzi prepotenti avevano cercato di rubarle tutti i suoi guadagni.
Lavoravano insieme, lui e Greta, ed era l’unica di cui si fidava. E lei si fidava di lui. Aveva solo nove anni e un visino angelico e dolcissimo, che faceva molta tenerezza, per questo riusciva sempre a racimolare i soldi senza fatica. Come ogni mattina, lei e Daniel si allontanarono insieme, in silenzio. Raggiunsero per prima cosa il centro commerciale: dovevano fare colazione. Alla fabbrica davano solo un pasto al giorno: quello della sera, e solo se te lo eri guadagnato. Se non raggiungevi la cifra pattuita, non mangiavi. Comunque, gli altri pasti te li dovevi procurare da solo. Greta e Daniel erano ormai esperti in questo campo. Si fermarono nell’ingresso, dove si salutarono:
“Ci troviamo qui fra circa un’ora”, le disse Daniel.
“D’accordo”, rispose lei. Per prima cosa s’infilò nel bagno, dove si diede una lavata di faccia e si pettinò. Non doveva dare nell’occhio, per questo doveva sembrare quasi una bambina bresciana, figlia di italiani.
Ora bastava fare un po’ di scena: dopo essersi divisi, i due bambini attendevano che una coppia senza figli, o al massimo con un bambino nel carrello, entrasse nel centro, e si accodavano a essi. Greta notò un paio di signori che facevano proprio al caso suo: giovani sposi che entravano nel centro mano nella mano. Con passo silenzioso entrò con loro. Ma i due, inaspettatamente, si accorsero di lei.
“Ciao piccola. Dov’è la tua mamma?”, chiese la donna.
Greta segnò col dito una donna che camminava da sola poco innanzi, poi salutò con la mano e, senza dire neppure una parola, trotterellò al fianco della signora. Rimase per un po’ al suo fianco, poi scivolò in uno dei reparti del supermercato, quello delle caramelle. Era strapieno: nessuno avrebbe badato a lei. S’infilò in tasca tutto quello che poté, senza dare nell’occhio, poi si allontanò in silenzio. Passò davanti ai giocattoli. La gente si affannava a fare le compere, quelle dell’ultimo momento, poco prima del Natale. Greta osservò sospirando le bambole in fila sugli scaffali. Non aveva mai avuto una bambola. Anche lei veniva dall’Albania, ma era orfana di entrambi i genitori e aveva solo otto anni quando era stata venduta all’uomo che era venuto a prenderla. Ricordava ancora come viveva là, in Albania, nella povertà estrema: nessuno le aveva mai fatto un regalo, e non aveva mai tenuto in mano un giocattolo. Avrebbe potuto rubare una bambola, e infilarsela sotto il pesante giaccone, ma sapeva che era inutile: gliela avrebbero sequestrata al rientro in fabbrica, oppure gli altri bambini gliela avrebbero portata via.
Ma ora doveva pensare al suo pranzo. Raggiunse il frigo dei prodotti freschi e trafugò dei tramezzini. Poi fu la volta di alcune piccole confezioni di tè pronto.
Erano le nove e mezzo quando sgusciò tranquillamente dietro le gambe di una grassa signora impegnata alla cassa, per poi raggiungere l’entrata del supermercato, dove si sedette ad aspettare Daniel.
Poco dopo il bambino arrivò e la salutò sorridendo. Poi si sedette accanto a lei su una delle panchine del centro commerciale.
Raggiante, Daniel si tolse di tasca i tramezzini e li appoggiò sulla panchina. La bimba fece altrettanto, mettendoci vicino anche le bibite e le caramelle.
“Caspita! Che bottino hai fatto stamane!”, esclamò Daniel.
I bambini divisero tutto, come sempre, poi mangiarono i panini e bevvero un tè, infine, masticando caramelle, si allontanarono. Come al solito si divisero: non si poteva lavorare in coppia, era controproducente. Solo in alcuni casi lui e Greta avevano lavorato insieme, gabbando i passanti con il “gioco delle tre carte”. Ma quel giorno c’era troppa confusione, troppa gente che andava e veniva per i fatti suoi.
Daniel si appostò nel solito angolo, vicino alla fontana. Mise per terra il suo cappello e si sedette con aria triste e sconsolata a chiedere elemosina, arruffandosi i capelli e sporcandosi un po’ il viso per sembrare più derelitto di quello che in realtà era.
All’una del pomeriggio sgranocchiò dei dolciumi che si era procurato quella mattina. Ma il lavoro languiva. Quel giorno nessuno aveva tempo per lui: erano tutti troppo occupati con i regali di Natale, tutti troppo presi con i propri affari per pensare a lui, per badare a un bambino che chiedeva elemosina in una popolosa via di Brescia. Fece il conto di quello che aveva guadagnato: solo venti euro. Decisamente troppo poco per tornarsene a casa. Erano ormai le tre del pomeriggio quando decise di tirar fuori la sua arma segreta: le carte da gioco.
“Okay… guardatemi tutti”, annunciò.
“L’asso vince, il fante perde”, e Daniel si esibì nel solito numero, in cui cercava di imbrogliare la gente e nascondeva abilmente con una serie di mosse l’asso di denari, mescolandolo con i due fanti. Purtroppo, senza Greta ad aiutarlo era tutto più difficile.
La sera giunse presto e, verso le sei, quando ormai era buio pesto, Greta e Daniel si avviarono verso la fabbrica.
“Com’è andata?”, le chiese.
“Bene! Ho guadagnato settanta euro”.
“Io ne ho solo quaranta. Stasera mi sa che le prendo”, sussurrò Daniel.
Prontamente, Greta estrasse dalla tasca dieci euro e glieli porse.
“Tieni, così raggiungi anche tu i cinquanta euro e non ti picchiano”.
Lui sorrise, prendendo i soldi.
“Grazie”, disse. Minuscoli fiocchi di neve cominciarono a scendere dal cielo, danzando lievi sotto la luce del lampione dove Daniel e Greta si erano fermati per mangiare gli ultimi avanzi che tenevano ancora in tasca.
“Ho una cosa per te”, disse Daniel, frugandosi ancora in tasca. Ne estrasse la mano chiusa a pugno, poi la aprì, rivelando una minuscola bambola di stoffa che aveva preso al supermercato. Greta lo fissò, incredula. Poi allungò la manina per prendere quel piccolo tesoro e se lo strinse al petto, raggiante. Infine, i due bimbi si allontanarono nella notte, diretti alla vecchia fabbrica. Li attendeva un lungo tratto di strada al buio e, come sempre, Greta strinse forte la mano di Daniel, spaventata. Camminavano in silenzio, mano nella mano, sotto la neve che scendeva sempre più fitta. Daniel aveva amato la neve, quando ancora stava con la mamma, in Albania, ma ora pensava che il giorno dopo avrebbe dovuto passare ore interminabili al gelo, sotto la neve che cadeva, gelandosi mani e piedi, e non gli piaceva più.
“Buonasera Daniel”. La voce lo fece sobbalzare e si guardò intorno spaventato, imitato da Greta. Non era una voce conosciuta. Dall’altra parte della strada, un’anziana signora lo guardava, sorridendo dolcemente. Chi era quella donna? Come poteva conoscere il suo nome?
Elena Ungini
Arrivederci al prossimo capitolo!
Mirtilla Malcontenta
Le fiamme di Pompei
Questo sito utilizza cookies per migliorare la tua esperienza di navigazione. Se vuoi maggiori informazioni visita il link.Accetta Mostra informazioni Privacy & Cookies Policy
2 risposte
Ragazze, siete state fantastiche. Aspetto tutti la settimana prossima. Sono elettrizzata… e già in assetto natalizio!
E’ un piacere per noi!